Intervista all’assassino di don Puglisi
Salvatore
Grigoli, l’ assassino di Pino Puglisi intervistato.
Quando
sentì per la prima volta il nome Puglisi?
«Quando mi hanno
comunicato che doveva morire, un paio di giorni prima di ucciderlo».
Perché
era stato dato quell’ordine?
«C’era la convinzione che
il Centro “Padre Nostro”, da lui creato, fosse un covo di infiltrati della
polizia. Poi si scoprì che non era vero. Ma innanzitutto perché nelle prediche,
a messa, parlava contro la mafia e la gente sentiva questo suo fascino,
soprattutto i giovani».
C’era
qualche frase in particolare?
«Non so se c’era una frase
particolare, anche perché a noi le cose ce le riferivano. I Graviano
(i fratelli Filippo e Giuseppe, boss di Brancaccio, accusati di essere i
mandanti) non andavano alle sue messe. Erano cose che gli venivano raccontate.
Ma Cosa nostra sapeva tutto, pure che continuava ad andare in Prefettura e al
Comune per chiedere la scuola media e il recupero degli scantinati di via Hazon, che voleva fare requisire, il Comitato
intercondominiale, le prediche. C’era gente vicina a don Pino che andava in
chiesa e poi ci veniva a raccontare».
Prima
dell’omicidio ci furono le vostre intimidazioni: l’incendio alle porte di casa
dei membri del Comitato, le minacce, il pestaggio di un ragazzo. Puglisi era
cosciente dei rischi?
«Lui aveva capito
certamente da dove arrivava il messaggio. Noi facevamo questi attentati per
allontanare da Brancaccio don Pino e la gente che lo appoggiava. Infatti un
paio se ne andarono. Ma Puglisi continuava a fare quello che aveva sempre
fatto, parlare contro la mafia...».
Un
delitto annunciato.
«Sì, anche perché lui
rimase solo. Secondo me, si poteva salvare. Se lo Stato lo avesse protetto, ad
esempio. E così successe quello che è successo».
E
arrivaste a quella sera.
«Lo avvistammo in una cabina
telefonica mentre eravamo in macchina. Andammo a prendere l’arma. Toccava a me.
Ero io quello che sparava».
Era
nervoso, guardingo?
«No. Era tranquillo. Che
era il giorno del suo compleanno lo scoprimmo dopo. Spatuzza
(un componente del commando che lo uccise) gli tolse il borsello e gli disse:
padre, questa è una rapina. Lui rispose: me l’aspettavo. Lo disse con un
sorriso. Un sorriso che mi è rimasto impresso».
Il
sorriso di un santo?
«Non ho esperienza di
santi. Quello che posso dire è che c’era una specie di luce in quel sorriso. Un
sorriso che mi aveva dato un impulso immediato. Non me lo so spiegare: io già
ne avevo uccisi parecchi, però non avevo mai provato nulla del genere. Me lo
ricordo sempre quel sorriso, anche se faccio fatica persino a tenermi impressi
i volti, le facce dei miei parenti. Quella sera cominciai a pensarci, si era
smosso qualcosa».
È
vero che si vantò di essere l’omicida di Puglisi?
«È assolutamente falso. Io
non avevo assolutamente nulla di cui vantarmi: se in Cosa nostra fosse stato
consentito giudicare un omicidio, io l’avrei criticato».
Quell’omicidio
fece molto clamore, fin dal giorno dopo. Che effetto vi fece i giorni seguenti?
«Nessun effetto».
E
le manifestazioni antimafia per le vie di Brancaccio, un mese dopo?
«Cominciammo a capire che
non era stata una cosa utile per noi. Anzi, aveva peggiorato la situazione. Una
specie di autogol. A quel punto abbiamo scelto il silenzio. E poi cominciarono
i problemi, e tra di noi, lo commentavamo come una maledizione».
Cosa
nostra rispettava i preti, quello era il primo omicidio del dopoguerra.
«Per Cosa nostra la Chiesa
era quella che, se c’era un latitante, lo nascondeva. Non perché era collusa,
ma perché aiutava chi aveva bisogno. Un territorio neutro. Cosa che è venuta a mancare
negli ultimi anni».
Lei
è a conoscenza di qualche latitante nascosto da sacerdoti?
«No, però si sapeva
nell’ambiente, che in passato era avvenuto».
E
la Chiesa di Puglisi?
«La Chiesa di Puglisi era
una Chiesa diversa».
Ricorda
le parole del Papa ad Agrigento contro i mafiosi, nel 1993?
«Vagamente, io allora ero
un mafioso. Mi toccò molto di più una lettera pubblicata sul Giornale di Sicilia da alcuni giovani
che mi invitavano al pentimento».
Ma
nell’ambiente di Cosa nostra che effetto fecero le parole del Papa?
«Si vociferava che la
Chiesa cominciava ad essere diversa».
Le
bombe in Laterano furono messe per questo?
«No. Era tutta un’altra
storia. Rientra in una strategia stragista di Cosa nostra contro le
istituzioni».
Lei
è accusato di un delitto orribile e odioso: il rapimento del figlio del pentito
Di Matteo, sequestrato per lungo tempo, ucciso e poi sciolto nell’acido per
ritorsione contro il padre.
«L’ho conosciuto bene quel
bambino. Madonna mia, era un ragazzo pieno di vita... Cosa nostra mi ha
tradito: mi avevano detto che lo dovevamo tenere per un paio di giorni e basta,
fino a quando il padre ritrattava. E invece... Ho fatto cose che non si possono
giustificare, ma questa... questa è stato il motivo del mio pentimento. Non
gliel’ho potuta perdonare»
Ci
sono mafiosi religiosi in Cosa nostra?
«Il novanta per cento dice
di credere in Dio. Uno dei miei coimputati diceva sempre: in nome di Dio, prima
che ci muovessimo per andare ad ammazzare qualcuno. A me questa cosa mi dava
fastidio: ma che aiuto ti può dare Dio, che andiamo ad ammazzare? gli dicevo
io. Ho sentito dire che Giuseppe Graviano qualche
volta andava a messa. È gente che legge la Bibbia. La Bibbia la leggevo
anch’io, da latitante. Mi piaceva leggerla. La leggevo allora e la leggo adesso
da credente. Perché è quando sei solo che cominci a riflettere. Perché loro ti
inculcano questa cultura: che tutto quello che fa Cosa nostra è giusto».
Che
passi della Bibbia ama leggere?
«La vita di Cristo sulla terra».
Lei
dice di essersi convertito.
«Vede, io c’ho questa
convinzione: che a me non mi crederà nessuno. Io sto cambiando, devo cambiare,
ma voglio che siano i fatti a far parlare me. Mi piacerebbe essere a Palermo il
15 settembre per l’anniversario della morte di Puglisi. Ma a me queste cose non
piace dirle, perché penseranno che sono un ipocrita. Lo Stato poi dovrebbe
aiutare chi può cambiare. In questo carcere, ad esempio, mi hanno negato
persino un prete. Come si fa a cambiare? Per cambiare bisogna essere aiutati.
Per questo sono molto grato a padre Mario, una persona squisita».
Padre
Mario Golesano, il parroco di Brancaccio che ha
sostituito Puglisi.
«Sì, io gli devo
moltissimo, non mi ha mai abbandonato. Lui mi ha scritto per primo. Ho provato
un’emozione intensa nel ricevere quella lettera. Mi scriveva di quanto era
bello sentire il pane profumato, faticato, sudato, guadagnato con i sacrifici.
Di sentire la gioia dei miei bambini. La gioia che io ho tolto a tanti bambini.
Il mio rammarico è quello di aver tolto tanti padri ai loro figli».
Un
profumo che a Brancaccio non sentì.
«Lì fin da bambini si
comincia a sentire il fascino degli uomini di rispetto».
Lei
ha scritto anche una lettera aperta al sindaco di Palermo, Orlando.
«Come rappresentante della
cittadinanza. Ho invitato chi è in Cosa nostra a cambiare, a seguire lo stesso
cammino che sto facendo io. Conosco i miei coimputati e sono convinto che
alcuni di loro potrebbero cambiare. Anche se è difficile, perché Cosa nostra ti
inculca che tutto è giusto, che lo Stato è il nemico numero uno, che i
magistrati sono dei mostri, che Falcone e Borsellino sono i nemici numero uno
di Cosa nostra».
Cosa
nostra a Palermo è ancora potente?
«Non vorrei che si finisse
come a Napoli, in un gruppo di clan in cui il primo che si sveglia spara.
Almeno Cosa nostra manteneva l’ordine. Cosa nostra in questo momento è in
ginocchio. E l’arma è quella dei collaboratori di giustizia. Chi lascia che
vengano denigrati fa un grosso sbaglio».