Che cos'è l'ebraismo oggi?

 

Con il termine ebraismo indichiamo sia la religione monoteista praticata dagli ebrei, sia l’insieme di coloro che la praticano, uomini che fanno parte di un unico popolo e di un’unica cultura che va al di là dei confini nazionali. Ebreo è colui che nasce da madre ebrea o si converte all’ebraismo con l’accettazione della legge mosaica.

Oggi gli Ebrei sono circa 14 milioni di cui un 40% vive in Israele, un altro 40% negli Stati Uniti d’America, e il rimanente soprattutto in Europa, in modo particolare in Francia e Gran Bretagna.

 

Ebrei in preghiera davanti a Muro del Pianto a Gerusalemme.

 

 

Lo Stato d'Israele

 

Il 14 maggio 1948, Israele si è proclamato Stato sotto la guida di David Ben Gurion. Da allora la sua popolazione è aumentata di 8 volte, in parte grazie alla natalità naturale, in parte grazie alla Legge del ritorno, che prevede la possibilità per tutti gli ebrei sparsi nel mondo di tornare in Israele ottenendone la cittadinanza. È un frutto del sionismo (da Zion, la collina su cui sorge Gerusalemme): questo movimento venne fondato alla fine dell’800 da Theodor Herzl, un ebreo-ungherese che viveva a Parigi. Immerso nel clima antisemita propose il ritorno degli ebrei in Israele e la conseguente costituzione di uno stato autonomo.

La Gran Bretagna che nel 1917 gestiva il protettorato su quei territori accettò che si creasse un “focolare ebraico” per cercare di distendere gli animi, (Dichiarazione Balfour, dal nome del primo ministro inglese che la pronunciò). Incominciò così l’emigrazione spontanea nei territori ceduti dagli arabi di alcuni ebrei che andarono ad unirsi a quelle poche comunità che non si erano mai spostate. Gli scontri tra le due comunità si manifestarono fin dall’inizio.

Allo scadere del protettorato, la risoluzione dell’ONU nel 1947 auspicava la nascita di due Stati: uno ebraico e uno arabo, Israele e Palestina. La risoluzione fu accettata e messa in atto solo dalla parte ebraica, dando vita allo Stato d’Israele nel 1948, mentre gli arabi la rifiutarono, impedendo la nascita dello Stato palestinese, ed essendo obbligati a abbandonare le loro case per rifugiarsi nei campi profughi allestiti nelle zone confinanti.

 

Una donna palestinese nei pressi del muro divisorio.

 

Palestina e Stato d'Israele: la questione palestinese

 

Da decenni ormai durano i conflitti fra Palestina e Israele: gli abitanti dell’una rivendicano il possesso delle terre in cui hanno vissuto per centinaia di anni; quelli dell’altra in nome dell’antica sede a loro concessa e poi tolta si sentono in diritto di ritornarvi. Per ambedue è in gioco la terra dei “padri”, dove nessuno dei due popoli è straniero. Due culture, due religioni, due situazioni economiche ben differenti: arabi, musulmani e poverissimi i Palestinesi; intraprendenti e benestanti invece gli Ebrei, che hanno subito, però, secoli di diaspora e l’orrore della shoah. Atti di terrorismo, attentati e soprusi di ogni genere non sono mancati da entrambe le parti, e la soluzione sembra ancora lontana. Prima (1987) e seconda (2000) Intifada (in arabo sollevazione) hanno costituito due fasi particolarmente critiche.

 

 

PALESTINA era l’antica striscia di terra popolata dai Filistei. In Palestina, nel corso dei secoli, è sempre vissuta una minoranza ebraica, ma il termine “palestinese” si riferisce oggi solo alla popolazione araba della regione.

 

INTIFADA: movimento rivoluzionario di massa caratterizzato dall’uso di armi improprie, dalla disobbedienza civile e da manifestazioni.

 

Una scena di violenza tipica dell’intifada.

 

A dividere ebrei e palestinesi c’è un muro, la cui edificazione è stata decisa da Israele nel 2002 per difendersi dal terrorismo. Un colosso in cemento e ferro, alto 8 metri, con filo spinato e torri di controllo, che non solo rende impossibile il passaggio dai territori occupati palestinesi a quelli israeliani, ma che divide soprattutto palestinesi da altri palestinesi. In questo modo si hanno ripercussioni economiche pesantissime sulla Palestina, in cui gli scambi sono penalizzati, i territori agricoli confiscati, la disoccupazione è endemica; in questo modo si violano le leggi internazionali e i diritti umani, come il diritto alla libertà di movimento, al lavoro, all’abitazione in luoghi dignitosi e sicuri, all’accesso ai servizi pubblici, al possesso della terra e si ghettizzano, di fatto, i palestinesi all’interno di tre “isole” non comunicanti.

 

Mappa satellitare con il muro divisorio presso la città di Gerusalemme. In rosso è evidenziato il muro già completato, in giallo quello da costruire; la linea bianca delimita la Città Vecchia mentre quella blu il comprensorio municipale di Gerusalemme.

 

Un tratto del muro divisorio.

 

D’altro canto, sempre nel 2002, un gruppo composto da insegnanti israeliani e palestinesi ha provato a confrontarsi su tre momenti focali della questione palestinese: la dichiarazione Balfour, l’indipendenza del 1948, e la prima Intifada. Ne è nato un libro, “La storia dell’altro”, che mostra chiaramente come le ragioni non stiano tutte da una parte e che è importante mettersi nei panni dell’altro perché “altro” siamo anche noi. Se la storia non consente un’incontro perché i due punti di vista sono rigorosamente separati, lo consentono il dialogo e la conoscenza, due buone pratiche che operano per la pace.

 

Il fatto essenziale e nuovo, assolutamente nuovo, è l’esistenza stessa di questo testo. Il discorso comune è per l’istante impossibile e lo resterà per molto tempo. Ciononostante, i professori che hanno redatto queste pagine l’hanno fatto nel rispetto reciproco dell’altro...

Senza dubbio, da una parte e dall’altra si è talvolta nel mito. Se la colonizzazione come "ritorno" rientra nel campo del mito, che dire della definizione del "Muro occidentale", detto Muro del pianto, come appartenente alla moschea Al Aqsa e atto a commemorare non il Tempio ma il volo del profeta Maometto sulla giumenta Baraq? Non è neanche certo che il re Davide abbia conquistato Gerusalemme battendo un popolo arabo. E ad ogni modo a cosa servono, da ambo le parti, queste leggende? I due popoli sono stati traumatizzati, gli Israeliani dal ricordo del genocidio, i Palestinesi da quello dell’espulsione. Sarebbe puerile chiedere loro di scrivere la stessa storia. È già ammirevole che accettino di coesistere in due racconti paralleli. Auguro buon vento a questa magnifica impresa.


(dalla prefazione di Pierre Vidal-Naquet di La storia dell’altro: israeliani e palestinesi, 2003, Edizioni Una Città)

 

Considera brevemente come hai vissuto questa mattinata di scuola, non ciò che è accaduto ma quali sono stati i tuoi sentimenti e le tue sensazioni in relazione alle attività proposte; confrontati poi con i compagni. La stessa giornata è stata vissuta da tutti allo stesso modo?

 

La cultura rabbinica di ieri e di oggi

 

Hyman Bloom, Rabbino con rotoli della Torah, 1980, Brunavišķi, Lettonia.

 

Rabbino è il “maestro” che guida una comunità. L’importanza di questa figura aumenta quando viene distrutto il Tempio di Gerusalemme: i sacerdoti perdono il loro ruolo, non essendoci più i sacrifici, e dal momento che il nuovo culto si basa sulla lettura del commento delle Scritture, i rabbini diventano importantissime guide spirituali.

La Torah viene studiata in quanto è parola di Dio, ma anche come regola di vita, per capire come metterla in pratica e attualizzarla nelle situazioni contingenti e di fronte ai cambiamenti della società. I libri della Torah hanno avuto nel corso dei secoli studi e commenti particolari da parte di diverse scuole rabbiniche. Queste, in epoche successive, hanno prodotto la Mishnah (che significa “ripetizione”, cioè commento, aggiornamento), raccolta scritta della tradizione orale, e il Talmud, costituito da commenti e discussioni dei Maestri alla Mishnah. A causa della diaspora, questi insegnamenti sono stati messi per iscritto, per non andare perduti. Vi sono due distinte versioni del Talmud, una palestinese e una babilonese. Tutti questi scritti, insieme con la Ghemarah (cioè i testi che stanno fuori della Mishnah e che poi vengono aggiunti e commentati) formano la cosiddetta “torah orale”.

Nell’epoca talmudica i rabbini vengono definiti “saggi” perché la loro funzione nella società ebraica, era quella di interpretare la Torah scritta e di fissare la Torah orale, come fa una persona che ha una formazione e una cultura sufficienti per dare un’interpretazione che si appoggi anche sulla tradizione. Normalmente i saggi di cui parla il Talmud hanno un lavoro con cui si mantengono e poi studiano i testi sacri e pregano. Dal Medioevo in poi i rabbini diventano soprattutto degli insegnanti, dei predicatori, e anche dei capi spirituali all’interno della comunità. Questo oggi parzialmente si perde, perché soprattutto nelle comunità piccole, i rabbini sono pochi e dunque esercitano solo questo ufficio.

I rabbini ricevono la Semikhah, la cosiddetta “ordinazione rabbinica”: essa avviene attraverso l’imposizione delle mani da parte di un maestro. Si tratta di un gesto biblico che denota il passaggio di consegne da un capo, un maestro, un capo spirituale, a chi viene dopo di lui. Essi però non sono sacerdoti.

 

Gli ebrei più ortodossi non tagliano i capelli ai lato del capo, ottenendo delle lunghe ciocche (peot) in obbedienza alla legge di Mosè: "Non vi taglierete in tondo i capelli ai lati del capo, e non ti raderai i lati della barba" (Levitico 19,26).

 

Tuttora la formazione avviene con lo studio. Prima avveniva presso un maestro; dall’epoca medievale in poi si formavano e si formano talvolta ancora nelle Jeshivot, cioè nelle scuole religiose. Oggi si formano nei collegi rabbinici, che sono diffusi in tutto il mondo: dopo un percorso di formazione, affiancato da un percorso di controllo della loro fedeltà alla tradizione, ricevono il titolo; esso, però, non serve direttamente per guidare il culto, che invece può essere guidato da qualunque persona di sesso maschile, adulta, che conosca l’ebraico, la liturgia, e sia in grado di guidare la comunità.

Al giorno d’oggi il rabbino ha una funzione di guida della comunità soprattutto per quanto riguarda i consigli su tutto ciò che concerne le norme dell’ebraismo: i precetti sono seicentotredici, e riguardano l’alimentazione, le feste, il riposo del Sabato, in alcuni casi il modo di vestirsi, la vita familiare, la vita pubblica. Talvolta, poi, deve anche dirimere le controversie in campo religioso e in campo legale per quanto riguarda l’aspetto religioso.

I rabbini vivono nel mondo e hanno una famiglia, perché nell’ebraismo sposarsi, e se possibile avere dei figli, è un precetto, e in quanto tale è dato a tutti senza distinzioni.

Non c’è un legame di stabilità tra il rabbino e la sua comunità, anche se la comunità sceglie il suo rabbino. C’è però un legame forte tra i membri della comunità: per fare la preghiera comunitaria bisogna essere in dieci adulti maschi, così come per leggere la Torah.